lunedì 16 luglio 2012

PILLOLE di Storia e Curiosità locali

Quasi un destino, per un comacchiese, diventare fiocinino o guardia valliva. Fin dall’età di 16 anni  si poteva essere assoldati fra le guardie in qualità di “ragazzo di valle”, per l’apprendistato. Per guadagnarsi la pensione, però, la strada era lunga: occorrevano infatti ben 10.400 giornate di lavoro. In ogni casone (formato da un portico, uno stanzone col camino che fungeva da cucina, e una camera da letto) stavano tre guardie: il capoposto, il sottocapoposto e la guardia semplice. Sempre all’erta contro gli “inafferrabili” fiocinini, rei di pescar di frodo (ma il movente di tale “crimine”, cui a quanto si racconta non erano estranee a volte anche le guardie, era sempre lo stesso: la fame). Presso la porta d’ingresso c’era la mappa della superficie valliva da controllare (circa 900 ettari per ciascun casone). Lo si faceva in due, in barca, dal tramonto all’alba; di giorno, dagli argini o dalle eventuali torrette d’avvistamento. Passatempi erano lavorare il legno, manutenere gli oggetti, le barche ed il casone stesso (un tempo di creta e canne, poi costruiti in muratura col materiale delle Casette Estensi). Questo per dodici giorni di fila, ai quali seguiva l’andare di “muta”, cioè un periodo di tre giorni di riposo. I requisiti per diventare una guardia valliva? Essere incensurati, saper condurre la barca e, soprattutto, possedere il corredo necessario per i giorni lontani da casa.
 
La vita del fiocinino non era certo invidiabile. Qualità indispensabili erano certo la prontezza e il coraggio, doti che del resto la fame aiuta ad avere. La pesca avveniva col “vulicipe” o “velocipede”,  barca lunga anche otto metri, e molto stretta, poco più di mezzo metro, studiata per filare via veloce lungo valli e canali, e pratica per essere trasportata sui cordoni di sabbia e sugli argini che separavano le valli. I fiocinini si organizzavano in coppia, anche sulla base di caratteristiche fisiche  che consentissero di mantenere un perfetto equilibrio sulla barca e la sincronia nella voga. Per pescare si usava la fiocina, immersi nella valle fino alla vita o al petto, pronti a tramortire le anguille  anche con un morso alla testa e poi infilzarle con un filo di ferro. Questo, naturalmente, di notte, sempre con l’orecchio attento alle guardie. Spesso venivano sorpresi, e allora via all’inseguimento, remando (anzi: paradellando) vorticosamente e correndo barca in spalla quando si trattava di saltare un argine. Talora altri due facevano da”pali” sull’argine, quando addirittura non intervenivano le mogli, per fermare o distrarre le guardie. Molte volte, però, la fuga non era possibile: se la pesca era andata male, i due fiocinini si arrendevano sùbito, per non aggravare la propria posizione. Se invece era andata abbastanza bene, ecco uno dei due scendere dalla barca e rimanere immerso nelle acque torbide della valle col sacco del pescato, mentre il compagno continuava la fuga, attirando su di sé gli inseguitori. Scampato il pericolo, ecco che il pescatore rimasto nascosto tornava cauto alle case. Nonostante la miseria, i fiocinini costituivano una società in cui tutto era comune, così come comune era la fame. Nei malaugurati casi di pesca sfortunata oppure dell’arresto d’un compagno, il bottino veniva diviso provvedendo anche alla famiglia del malcapitato.  
 
L’invenzione del lavoriero, l’ingegnosa trappola di valle per la cattura delle anguille, risale al XVI secolo, prontamente cantato da Torquato Tasso. Successivamente perfezionato, il De anguillarum comaclensium piscatione, venne addirittura premiato dalla Regia Accademia delle Scienze di Amsterdam, costituendo “arte ammirabile” di pesca il fatto di lasciare alle anguille libero ingresso nelle valli per poi intrappolarle in questa sorta di originale labirinto che è appunto il lavoriero.
 
Al fiocinino colto sul fatto e arrestato, magari dopo un lungo inseguimento, venivano sequestrati la fiocina e la barca (che sovente veniva distrutta), gli attrezzi e tutto il pescato. C’era poi il processo, che terminava quasi sempre con la condanna a due giorni di prigione, a volte anche di più. E la condanna era dunque, in un certo senso, per tutta la famiglia, che si trovava allora alla fame più nera. Inoltre, la condanna andava naturalmente e inesorabilmente a “macchiare” la fedina penale. Dopo la guerra, si celebrarono decine e decine di “processi” (spesso pro-forma) di riabilitazione, in quel di Bologna, per “lavare” le fedine penali dei fiocinini e permettere loro di votare, cosa che altrimenti sarebbe stata loro esclusa. Evidentemente, i nuovi governanti erano molto sensibili all’argomento, essendo che da ciò dipendeva la loro elezione.  

(Tratto dalla rivista New Corriere dei Lidi)


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