domenica 21 aprile 2013

Storie d’altri tempi- rispolverate da Franco Lucani- Lo Stradone del diavolo-




Ciò che viene indicato Stradone del diavolo è il tratto di strada che da Viale Genova arriva fino alla Strada Statale Romea, incrociando la via Acciaioli. Tale stradone, fino a parecchi decenni fa, era un percorso ai margini del quale vi era una folta vegetazione composta da rovi e piante selvatiche. Era il luogo nel quale giovanotti e ragazzini, a piedi, si recavano per raccogliere le more. Percorrere quel sentiero polveroso e pieno di buche comportava quasi sempre la foratura dei pneumatici delle biciclette, causa l’eccessiva presenza di piante spinose (muraiolie, cagatrapul). La leggenda su tale toponimo è assai ricca e qui di seguito si riporta quanto il cronista Rino Boccaccini  detto “Ribo” scrisse il 30 maggio 1943
“Lo “Stradone del diavolo”incastrato tra le dune e la vergine boscaglia elica, sorge a poche centinaia di metri dalla ridente marina di Porto Garibaldi. Si può dire ad onor del vero che la natura gli ha fatto omaggio dei suoi quadri più suggestivi ed originali. Provate, infatti, ad abbandonarvi alla pace e alla serenità  silvestre che ispira questo luogo ascoso, dove non giunge che l’eco attutita dei canti campagnoli, lo starnazzare rauco delle anitre negli stagni, il belare sommesso delle mandrie al pascolo, il fruscio leggero degli alti cespugli impolverati nell’ora incantata del meriggio, ancor piena di sole e di calura, e subito vi sentirete  più buoni, più felici! Cercatevi una dolce compagnia e andate, correte liberi [...] E’ strano ma è certo che simili  velleità del cuore sbocciano prepotenti dalle leggende che corrono sul conto dello “Stradone del diavolo”.
Leggende antichissime, una delle quali narra, con approfondita argomentazione, che proprio sullo “Stradone del diavolo” fiorì il grande amore di Calissiano e di Aglae, meglio conosciuti letterariamente, per   il” baiardo” il primo e per “ la bella dagli occhi di smeraldo” l’altra.
In questo accidentato stradone, ancor oggi così poco accessibile, fiorì e morì anche, l’amore dei due giovani innamorati che, per seguire l’impulso ardente del cuore, avevano abbandonato gli aviti castelli d’Abruzzo per una capanna sperduta nella boscaglia, quasi in riva al sonante mare.
Morì quell’amore in una misteriosa cornice di tragicità. La popolare storia di quel tempo racconta che “ vil mano armata, da lungi venuta, quelle due giovani anime amanti trafisse nell’ombra”. Gelosia d’un bruto respinto fu ragion di cotanta strage che per tre giorni, col cielo, fece piangere la semplice gente dei campi”.
Fu chiamato anche “stradone del diavolo” appunto perché, allora, specialmente nelle notti di tregenda, si diceva s’alzassero improvvise, pallide forme di fantasmi...Però si ha motivo  di credere che i “fantasmi” siano esistiti soltanto nella troppo  esaltata immaginazione  di quelle genti...”
[...] Ma cacciate le ombre ed i fantasmi, e ritornando all’argomento iniziale, provate d’andare in gita , più o meno domenicale, allo “Stradone del diavolo” nella sua bellezza naturale [...] una cosa certamente vi farà piacere: non troverete alcun cicerone che vi disturbi con il raccontarvi a viva forza che quella catapecchia alla Robinson fu il paradiso e la tomba di Calissiano e di Aglae: che quella capanna è la capanna “Giusfaie”, l’eremita che consuma tutto il suo tempo a comporre serti di fiori campestri; che certe orme sulla sabbia sono quelle di un leprotto...
Oggi... ed è passato molto tempo- ogni leggenda è caduta, avvizzita, come un fiore ammalato; sono sparite anche le ombre ed i fantasmi opalescenti e, tutt’intorno, aleggia, domina la pace: la pace dei campi, fertili, festosi di vita e di lavoro, di canti e di suoni”(Tratto dalla rivista New  Corriere dei Lidi).

I RICORDI DI NINI ZIRONI - "IO ADOLESCENTE E SOFIA LOREN"

SOFIA LOREN
NINI ZIRONI
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Da ragazzino andavo a villeggiare a Porto Garibaldi con la mia famiglia. Alloggiavamo all'Hotel Miramare. Come per tutti i  ragazzi, le mie giornate trascorrevano fra bagni di mare e di sole, e il gelato dopocena. E così tutti i giorni, salvo qualche eccezione o imprevisto, che un anno arrivò appena un paio di giorni dopo il nostro arrivo. Era il 1954. Quella mattina tutti i quotidiani, perfino il telegiornale, diedero la notizia che Porto Garibaldi e dintorni erano stati scelti come set per il film La donna del fiume con la regia di Mario Soldati e per protagonista la splendida Sophia Loren (allora il suo nome si scriveva con la ph) che stava uscendo prepotentemente alla ribalta per la sua bellezza e il talento che avrebbe pienamente dimostrato, interpretando questo film. Ai villeggianti non pareva vero di potere avere la troupe cinematografica in paese, ma io che alloggiavo al Miramare, l'albergo scelto dalla produzione, ero al settimo cielo. Un paio di giorni dopo l'ambaradan era già tutto sistemato e al terzo incominciarono le riprese al Lido di Volano, che allora era un luogo selvaggio. Fra gli attori, oltre alla Loren, c'era un bel ragazzo al suo  debutto, Rik Battaglia; una deliziosa biondina francese, Lise Bourdin; un mio coetaneo, Enrico Olivieri; e Gérard Oury. Quest'ultimo lo vedevo tutte le mattine in spiaggia, dove andava a correre. In realtà fu lui a vedere me. Una, due volte, poi notai che mi guardava in modo un po' particolare e mi seguiva, una volta anche fino all'albergo. La troupe girava di giorno; al rientro, all'imbrunire, dopo la cena al ristorante dell'albergo, fra gli addetti ai lavori incominciava una festa sfrenata, scatenata dalla bella Sofia che per un paio d'ore ballava, accompagnata dalla base che usciva da un giradischi, il mambo che avrebbe cantato e ballato nelle scene in programma la settimana dopo: era Mambo bacan del maestro Trovaioli, che all'uscita del film, cantato dalla Loren, sarebbe diventato un grande successo discografico. Questi sfrenati balli-provini durarono più di una settimana. Non potete capire come mi sentissi io nel vedere la sensualità e la bravura di lei quando alzava la sottana per rendere più sexy il suo mambo! Metà dei villeggianti si dava appuntamento davanti alla vetrata dell'albergo per prendere i primi posti e vedere la nostra futura diva ballare. Chi può dimenticare le sue lunghissime gambe e quelle caviglie perfette! Appresi dai camerieri che la settimana successiva avrebbero girato per ben 15 giorni in una balera costruita fuori mano la scena in cui Sofia ballava il mambo (la scena clou del film); cercavano comparse e quattro o cinque ragazzini che dovevano far finta di giocare ai bigliardini mentre lei ballava. Quasi mi scoppiò il cuore: la sera stessa, dopo l'esibizione-prova dell'attrice, colsi l'occasione per fermarla e chiederle un autografo (che possiedo tutt'ora) dicendole che avevo saputo della ricerca dei ragazzi per i bigliardini. Lo chiesi quasi con le lacrime agli occhi. Forse si sarà commossa; mi disse che se fossi stato scelto sarebbe servito il consenso scritto di una familiare. Mi presentò all'aiuto regista, che era il grande Florestano Vancini. Gli fui simpatico, disse che non avrebbe avuto nulla in contrario nel prendermi, ma di presentarmi la sera dopo con uno di famiglia che desse il suo consenso firmato per la mia partecipazione come comparsa per 15 giorni consecutivi. Così fu. Si veniva pagati 1000 lire al giorno più cestino per il pranzo. Ci prelevavano con un pullman davanti al Miramare alle 6.30 del mattino, rientro alle 18.30. L'emozione che provai il primo giorno non riesco ad esprimerla con le parole né con la fantasia. Era il paradiso vedere in questa balera improvvisata lo splendore di Sofia che danzava (e lo ha fatto per due settimane!) il suo Mambo bacan. Un bel giorno feci un colpo di testa: stanco di stare ai giochi scelsi una signora seduta ai tavolini (tutto era preparato nei minimi particolari) e le chiesi se voleva ballare il mambo con me, come se fossimo in una vera balera. Acconsentì. Quando passammo davanti alla macchina da presa, il regista non credette ai propri occhi: "Alt, alt!" urlò, "Ma chi ha formato questa coppia? Non vedete che lui è un ragazzino e lei potrebbe essere la nonna? Lei ritorni ai tavoli!" E, rivolgendosi a me: "Ritorna sùbito ai bigliardi!" Avevo fatto perdere tempo al grande Mario Soldati e spendere soldi alla produzione. Ma io volevo avere un poco più di visibilità! Dopo quell'episodio diventai la mascotte di Soldati e Vancini e ogni giorno verso la mezza, alla pausa per il pranzo, mi volevano con loro, mi cercavano addirittura. Fino alle due e mezza era un vero spasso, li tenevo allegri cantando e combinandone di ogni colore. Era bellissimo. Quando Dio volle (io non lo avrei voluto mai), arrivò l'ultimo giorno di lavorazione. Fu un vero dolore per noi comparse, così come per registi, tecnici, attori: eravamo diventati tutti amici. Io da ragazzino-adulto avevo le lacrime agli occhi. Era finita un'esperienza che a distanza di circa cinquant'anni porto dentro di me e ricordo come fosse ieri. Grazie a Mario Soldati, a Florestano Vancini e soprattutto alla splendida Sofia Loren che nell'età della pubertà mi ha fatto sognare di tutto, e reso anche più maturo! (Tratto dalla rivista New Corriere dei Lidi).

giovedì 4 aprile 2013

L'ARGENTO DEL MARE

Narra la leggenda che tanto tempo fa splendeva nel cielo una famiglia di stelle luminosissime; si chiamavano Engrauline e pare fossero molto vanitose. Proprio per la loro vanità (pretendevano di essere ammirate dagli uomini anche di giorno) furono punite dal re degli dèi che dal cielo le gettò in mare. "Ora gli uomini potranno ammirarvi notte e giorno", disse loro, "ma il vostro splendido color argento non sarà più eterno e sarete costrette a correre e a patire la paura". Da allora quelle stelle si chiamano acciughe e sono le reginette di quello che va sotto il nome di 'pesce azzurro', che comprende anche sardine, sgombri, tonni, aguglie, alacce, pesci spada, bisi, palamite e quant'altri. Generalmente sono piccole, sottili e affusolate, i fianchi argentei e il dorso argentato-nerastro (a Genova una delle tipiche grida delle venditrici di pesce era: 'Vendu l'argentu du mâ!' (l'argento del mare). Di solito si spostano a banchi, nutrendosi di plancton. Si pescano fra la primavera e l'inizio dell'estate, particolarmente fra fine maggio e fine giugno quando la loro carne è più soda e compatta. Alla fine dell'autunno, terminato il ciclo riproduttivo, tornano verso acque più profonde, ripetendo un cammino che nella loro vita si ripropone al massimo due volte. Le acciughe dell'Adriatico crescono più in fretta e sono più grasse, mentre quelle Tirreniche e Liguri sono di maggiori dimensioni, scure e affusolate, preferite sia per la qualità che per le esigenze della conservazione. Le migliori sono considerate da sempre quelle liguri, definite dai locali 'u pan du mâ' (il pane del mare). Molto utilizzate nella cucina ligure, già a partire dai 'gianchetti', che sono gli avannotti ossia le acciughe appena nate, pescate fra gennaio e febbraio, e anche da quella piemontese nella 'bagna cauda'. Particolarmente rinomate, per il loro sapore particolare, quelle di Monterosso e delle Cinque Terre. Pescate da sempre, apprezzate dai Romani per il loro garum, si dice che: 'L'acciuga ha 24 virtù e ogni ora ne perde una', per sottolineare che va consumata freschissima. (Tratto dalla rivista New Corriere dei Lidi)








L'ANGUILLA ELETTRICA

L'Electrophorus electricus, conosciuto comunemente come anguilla elettrica, elettroforo o gimnoto, è un pesce d'acqua dolce, conosciuto soprattutto per la sua capacità di generare, tramite dei particolari muscoli disposti lungo i suoi fianchi, dei potenti campi elettrici, dell'ordine di centinaia di volt, che utilizza sia per la caccia che per l'autodifesa, ma che possono essere considerati anche come organi sensoriali. Vive nelle acque interne del Sudamerica, in particolare nei corsi d'acqua amazzonici quali il Rio delle Amazzoni, l'Orinoco e i loro affluenti, in acque tranquille dai fondali melmosi e ricchi di vegetazione, nei quali può nascondersi e tendere agguati alle prede. Ha una tipica forma allungata e fusiforme. Il suo corpo è liscio, scivoloso e praticamente senza scaglie; ha un colorito grigio scuro che sfuma in  giallo-arancio sul ventre. Non ha una pinna dorsale, mentre quella anale forma una cresta che scorre per tutta l'estremità inferiore del corpo fino alla coda. Può raggiungere una lunghezza di 2,90 metri e 20 chili di peso, e ogni 10 minuti è costretto a raggiungere la superficie per respirare. L'anguilla elettrica possiede tre paia di organi elettrici addominali in grado di generare un campo elettrico, costituiti da cellule di origine muscolare dette elettrociti, che sono piatte, a forma di disco, affrontate ed allineate: all'interno di esse scorre la corrente elettrica. Il meccanismo è simile a quello di una batteria, nella quale piatti conduttori affrontati producono una carica elettrica. Gli elettrociti, presenti in un numero che si aggira intorno a 500.000, possono produrre in questo modo una scarica di circa 550 volt a un flusso di corrente pari ad 1 ampere (500 watt), e possono mantenere questo ritmo per parecchi giorni. Una scarica di questo tipo rende l'anguilla elettrica uno dei pesci elettrofori più forti, insieme alle torpedini, ed anche uno degli animali più pericolosi delle foreste sudamericane: un esemplare adulto è capace di uccidere con le sue scariche un uomo sano e di abbattere un cavallo, anche a una distanza di 6 metri. Oltre a questa devastante scarica, che il pesce utilizza per la caccia o l'autodifesa, questo pesce è in grado di generare campi elettrici di più lieve intensità, dell'ordine di 10-15 volt, che utilizza principalmente per localizzare le prede, comunicare con altri esemplari della sua specie, oltreché per la ricerca del partner e l'accoppiamento. Nonostante la sua potenza, l'anguilla elettrica non potrebbe far funzionare normali elettrodomestici o lampade, in quanto ogni scarica dura soltanto due millesimi di secondo mentre una comune lampada impiega circa un cinquantesimo di secondo per riscaldarsi abbastanza da diventare visibile. Il corpo dell'anguilla elettrica è per circa l'80% occupato da organi che producono o comunque hanno a che fare con l'elettricità, mentre tutti gli altri organi non occupano che il restante 20%. La sua dieta comprende sia pesci che piccoli mammiferi. Di solito coglie le sue prede di sorpresa e stordendole con le sue scariche elettriche. I neonati si nutrono invece prevalentemente di invertebrati acquatici e di uova di insetti. (Tratto dalla rivista New Corriere dei Lidi)