venerdì 27 luglio 2012

STORIA E CURIOSITÀ LOCALI IN... PILLOLE QUANDO SI BALLAVA “ALLA FONTANA”


Fino a poco più della metà del Novecento, il ballo era veramente un’occasione d’incontro per i giovani. Ci si scambiavano gli inviti fra famiglie. Ma si ballava anche nelle osterie e nei circoli. A Comacchio c’erano i circoli sociali, con relative salette. Fra questi, il circolo dei Marinai, del Bastone, delle Forbici e della Salina. A Porto Garibaldi, quello della Società Operaia e il Mazzini. Tangente la strada Romea c’era l’Osteria di Frascòn (al secolo, Francesco Menegatti), a San Giuseppe l’Osteria della Marietta e la Sala della Cucajona (al secolo Antonietta Rizzati), che intorno al 1940 divenne proprietà della famiglia Martini. Gli incontri fra i giovani, in particolare quelli delle famiglie contadine, avvenivano soprattutto nel periodo della raccolta delle uve, a fine agosto, nel periodo in cui ci si scambiavano gli  aiuti per la sfogliatura delle pannocchie di granturco. Al termine di ogni serata di sfogliatura, l’aia trasformava in sala da ballo al chiar di Luna, al suono d’un organetto e di un mandolino. Questi incontri offrivano l’occasione di corteggiare le graziose e genuine ragazze di campagna. A San Giuseppe, la sala da ballo ebbe esercizio fino al 1954-55. In questo ritrovo, frequentato anche da giovani coppie di sposi, in maggioranza residenti nei fondi agricoli distanziati anche 4-5 chilometri l’uno dall’altro, ci si scambiavano anche le notizie locali. Le orchestrine erano formate da suonatori che non conoscevano la musica  ma suonavano a orecchio. Bravissimi, comunque. I più noti, in armonia fra loro, erano Davide Moretti (organetto), Euclide Moretti (violino), Gabriele Arveda (detto Bucèn) (clarino), Raimondo Luzzi (detto Rimònd) (contrabbasso), e diversi suonatori di chitarra e mandolino, fra cui Antonio Fabbri e Piero Luciani. Non avendo spartiti, sia all’inizio che al termine di ogni ballo, un suonatore batteva un piede sull’assito del palco. Capitò alcune volte che qualche ragazzo in vena di scherzi battesse un mattone sull’assito, con l’effetto che i suonatori si fermassero, interrogandosi sul perché mai il capo orchestra li avesse interrotti a metà. A quei tempi la diffusione dei giornali era difficile e onerosa, come pure l’ascolto della radio, sì che le notizie giravano col passaparola. Ad ogni intervallo saliva sul palco il ben noto Tebo Luzzi per annunciare in dialetto le novità della settimana: ‘Domani alle tre c’è il funerale del povero Antonio’, ‘Sabato e domenica prendono in nota chi deve andare a scuola’, ‘Mercoledì e giovedì il mulino macina’, e così via. Anche la sala da ballo di San Giuseppe era dotata di botteghino e una specie di bar; per il riscaldamento c’erano stufe in terracotta alimentate con legna da ardere, mentre l’illuminazione avveniva con lampade alimentate a gas di acetilene. D’Estate la sala era ben arieggiata grazie ad ampie porte e finestre. Alla fine della guerra, Porto Garibaldi rimise in mare il naviglio peschereccio. Fortuna volle la repentina cattura di grandi quantità di saraghina. I magnavaccanti abitavano in gran parte in alloggi di rifugio, intorno a San Giuseppe, dov’erano sfollati. C’era un grande desiderio di salutare e ringraziare la manna saraghina, così organizzarono una veglia danzante, dal sabato sera fino alla mattina, nella seconda settimana del dicembre del ’45. Per questa festa, al vigliòn d’la saraghina, si compose un valzer, con musica di Canzio Ferroni e parole di Guido Vincenzi: l’orchestra era quella del celebre violinista Nini Visconti, di Porto Garibaldi. Orchestrine di buontemponi, residenti in vari luoghi del basso Po ferrarese, in occasione delle festività dell’epifania, si recavano nelle osterie e nei casolari di campagna, suonando canzoni di auspicio all’abbondanza, alla salute e al buon raccolto. Dalle famiglie ricevevano piccoli doni, quali vino, focaccia coi fichi secchi o ciccioli di suino, qualche salsiccia, uova, un po’ di pancetta, che poi consumavano in piccolo convivio nelle osterie di paese. Il tempo passa, molte cose si dimenticano. Eppure a volte basta niente per ripescarle dalla memoria e riviverle, e farle vivere così anche a chi non c’era, aprendogli una piccola finestra su quei tempi, più poveri e più ingenui, ma anche più felici.
Acquirino Felisatti 
(Tratto dalla rivista New Corriere dei Lidi)

ORMAI ENTRATI NELLA STORIA GLI ANNI “60” HANNO VISTO L’INIZIO DEL BOOM ECONOMICO SUL LITORALE COMACCHIESE. QUESTA UN IMMAGINE DELL’HOTEL DELLE NAZIONI AL LIDO DELLE NAZIONI NEL 1964


lunedì 23 luglio 2012

PILLOLE di Storia e Curiosità locali

Era appena nata, Venezia, che già guardava con un certo malocchio la nostra città, rea di offuscare e fare concorrenza alla sua nascente gloria. A motivo delle Saline comacchiesi o con altri pretesti, Comacchio venne distrutta dai veneziani per ben quattro volte, l’ultima delle quali, all’inizio del Cinquecento, in modo pressoché totale, tanto da segnarne definitivamente le sorti. I principali monumenti che oggi turisti e viaggiatori possono ammirare sono seicenteschi, frutto della ripresa, voluta dal governo pontificio, nell’architettura e nello spirito, dopo quel terribile evento. Chi visitasse la chiesa di Malamocco, in quel di Venezia, vi troverebbe le antiche spoglie razziate a Comacchio dopo il sacco dell’anno 854. (Tratto dalla rivista New Corriere dei Lidi)

lunedì 16 luglio 2012

PILLOLE di Storia e Curiosità locali

Quasi un destino, per un comacchiese, diventare fiocinino o guardia valliva. Fin dall’età di 16 anni  si poteva essere assoldati fra le guardie in qualità di “ragazzo di valle”, per l’apprendistato. Per guadagnarsi la pensione, però, la strada era lunga: occorrevano infatti ben 10.400 giornate di lavoro. In ogni casone (formato da un portico, uno stanzone col camino che fungeva da cucina, e una camera da letto) stavano tre guardie: il capoposto, il sottocapoposto e la guardia semplice. Sempre all’erta contro gli “inafferrabili” fiocinini, rei di pescar di frodo (ma il movente di tale “crimine”, cui a quanto si racconta non erano estranee a volte anche le guardie, era sempre lo stesso: la fame). Presso la porta d’ingresso c’era la mappa della superficie valliva da controllare (circa 900 ettari per ciascun casone). Lo si faceva in due, in barca, dal tramonto all’alba; di giorno, dagli argini o dalle eventuali torrette d’avvistamento. Passatempi erano lavorare il legno, manutenere gli oggetti, le barche ed il casone stesso (un tempo di creta e canne, poi costruiti in muratura col materiale delle Casette Estensi). Questo per dodici giorni di fila, ai quali seguiva l’andare di “muta”, cioè un periodo di tre giorni di riposo. I requisiti per diventare una guardia valliva? Essere incensurati, saper condurre la barca e, soprattutto, possedere il corredo necessario per i giorni lontani da casa.
 
La vita del fiocinino non era certo invidiabile. Qualità indispensabili erano certo la prontezza e il coraggio, doti che del resto la fame aiuta ad avere. La pesca avveniva col “vulicipe” o “velocipede”,  barca lunga anche otto metri, e molto stretta, poco più di mezzo metro, studiata per filare via veloce lungo valli e canali, e pratica per essere trasportata sui cordoni di sabbia e sugli argini che separavano le valli. I fiocinini si organizzavano in coppia, anche sulla base di caratteristiche fisiche  che consentissero di mantenere un perfetto equilibrio sulla barca e la sincronia nella voga. Per pescare si usava la fiocina, immersi nella valle fino alla vita o al petto, pronti a tramortire le anguille  anche con un morso alla testa e poi infilzarle con un filo di ferro. Questo, naturalmente, di notte, sempre con l’orecchio attento alle guardie. Spesso venivano sorpresi, e allora via all’inseguimento, remando (anzi: paradellando) vorticosamente e correndo barca in spalla quando si trattava di saltare un argine. Talora altri due facevano da”pali” sull’argine, quando addirittura non intervenivano le mogli, per fermare o distrarre le guardie. Molte volte, però, la fuga non era possibile: se la pesca era andata male, i due fiocinini si arrendevano sùbito, per non aggravare la propria posizione. Se invece era andata abbastanza bene, ecco uno dei due scendere dalla barca e rimanere immerso nelle acque torbide della valle col sacco del pescato, mentre il compagno continuava la fuga, attirando su di sé gli inseguitori. Scampato il pericolo, ecco che il pescatore rimasto nascosto tornava cauto alle case. Nonostante la miseria, i fiocinini costituivano una società in cui tutto era comune, così come comune era la fame. Nei malaugurati casi di pesca sfortunata oppure dell’arresto d’un compagno, il bottino veniva diviso provvedendo anche alla famiglia del malcapitato.  
 
L’invenzione del lavoriero, l’ingegnosa trappola di valle per la cattura delle anguille, risale al XVI secolo, prontamente cantato da Torquato Tasso. Successivamente perfezionato, il De anguillarum comaclensium piscatione, venne addirittura premiato dalla Regia Accademia delle Scienze di Amsterdam, costituendo “arte ammirabile” di pesca il fatto di lasciare alle anguille libero ingresso nelle valli per poi intrappolarle in questa sorta di originale labirinto che è appunto il lavoriero.
 
Al fiocinino colto sul fatto e arrestato, magari dopo un lungo inseguimento, venivano sequestrati la fiocina e la barca (che sovente veniva distrutta), gli attrezzi e tutto il pescato. C’era poi il processo, che terminava quasi sempre con la condanna a due giorni di prigione, a volte anche di più. E la condanna era dunque, in un certo senso, per tutta la famiglia, che si trovava allora alla fame più nera. Inoltre, la condanna andava naturalmente e inesorabilmente a “macchiare” la fedina penale. Dopo la guerra, si celebrarono decine e decine di “processi” (spesso pro-forma) di riabilitazione, in quel di Bologna, per “lavare” le fedine penali dei fiocinini e permettere loro di votare, cosa che altrimenti sarebbe stata loro esclusa. Evidentemente, i nuovi governanti erano molto sensibili all’argomento, essendo che da ciò dipendeva la loro elezione.  

(Tratto dalla rivista New Corriere dei Lidi)


martedì 10 luglio 2012

IN VACANZA CON “PSICOLOGIA” Cosa fare in vacanza?

La risposta è semplice: NON FARE quello che abbiamo fatto nei 340 giorni che sono trascorsi dalle ultime vacanze, ovvero ritrovare la natura ed i suoi ritmi naturali abbandonando la vita innaturale che conduciamo tutto l'anno. Dovremmo essere attivi di giorno e dormire la notte, utilizzare la luce artificiale il meno possibile, dimenticare la radio e la televisione, le riviste e i quotidiani, gustarci la pace del primo mattino e la serenità di un tramonto infuocato, odorare i fiori ed accarezzare gli alberi, passeggiare tranquillamente ed evitare gare o discussioni competitive. Soltanto in questo modo daremo all'emisfero destro del nostro cervello la possibilità di fare la sua parte e ricreare in noi il desiderato equilibrio naturale. Indipendentemente da quanto queste idee possano essere accettate, vi sono comunque degli elementi che sarebbe bene non sottovalutare. Tra questi, vi è il fatto che le nostre emozioni subiscono un processo di condizionamento; questo significa che provare ansia o agitazione per scherzo, ovvero assistendo a spettacoli drammatici o frequentando discoteche, in un certo modo ci abitua ad essere agitati o comunque ci rende assai più difficile trovare la pace interiore. Diversi libri in commercio mettono in risalto i danni che una musica concitata, ad alto volume, può causare sul sistema nervoso. A tal riguardo citiamo l'opinione del dott. Bob Larson che afferma categoricamente: "L'effetto di tale musica agisce sul liquido cerebrospinale che, influenzando la ghiandola pituitaria, stimo la secrezione di alcuni ormoni creando così uno squilibrio nel tasso di insulina nel sangue e nella produzione di ormoni sessuali e surrenali. Ciò provoca un notevole abbassamento della moralità con dei risultati facilmente immaginabili".  (Tratto dalla rivista New Corriere dei Lidi)