venerdì 26 dicembre 2014

SI DICE... NON SI DICE "Errori e orrori nell'uso che facciamo della nostra lingua" (a cura della risorta Accademia dei Fluttuanti)

Vediamo un po’... come si chiama l’albero: caco o cachi? L’arte è... culinaria o cucinaria?  Si dice leccòrnia o leccornìa? Onoreficenza od onorificenza? Mussulmano o musulmano? Si dice ‘i gnocchi’, ‘i gnomi’ oppure ‘gli gnocchi’, ‘gli gnomi’? A Monza c’è un circuìto o un circùito? Eclisse o eclissi? Ormai possiamo stare abbastanza tranquilli, perché a non saperlo, oltre a molti di noi, ci sono professori e docenti, e dare brutti voti per il rispetto dell’italiano non è più di moda (guai, invece, a sbagliare una parola inglese). Come si è detto altre volte, la lingua è soggetta a una sua evoluzione e quelle che prima erano considerate forme corrette possono cadere nel dimenticatoio rimpiazzate da altre più ‘moderne’ o da queste affiancate. È il caso dei termini che compaiono nelle domandine precedenti, anche se, per la cronaca, le risposte corrette sono, in tutte quante le domande, le voci riportate per seconde, quindi: cachi, cucinaria ecc. (Tratto dalla rivista New Corriere dei Lidi)

SAN GIUSEPPE

Frazione del comune di Comacchio, si trova lungo la strada statale Romea e dista dal capoluogo circa sei chilometri. Fino al 1660 fu immersa in un bosco d’elci che dopo tale epoca venne quasi completamente estirpato e il terreno ridotto a coltura, soprattutto a vigneto, dove si produceva il famoso vino delle sabbie. San Giuseppe, da tempo imprecisabile, è denominato La Fontana (Le Funtane). Tale appellativo deriva dal fatto che la zona era ricca di fontane d’acqua dolce cui attinsero fino a pochi decenni or sono le genti di Comacchio. Un grande pozzo si trovava nella “fossa dei Pelandri” (in ti Plander). L’acqua, nelle botti, veniva trasportata in barca lungo il canale fino a Comacchio. Ecco perché tale canale, attualmente chiuso, venne denominato al caneal dlà bote (il canale della botte). Detto pozzo fu chiuso con la costruzione dell’acquedotto. Il comune di Comacchio, a ricordo della famosa fontana, ha denominato la strada principale Stradone della Fontana e nel 2008 ne ha fatta costruire una di grande pregio ornamentale al centro del paese. La chiesa di San Giuseppe, che si trova lungo tale via, fu edificata nel 1747 e il 2 gennaio 1748, monsignor Cristoforo Lugaresi, vescovo di Comacchio, la consacrò. Il 19 marzo di ogni anno ricorre la festa patronale. A tale ricorrenza i Fontanari dedicano, da sempre, la massima attenzione e tripudio e nei tempi passati la vivevano in maniera particolare. Infatti, se in altre festività il lavoro dei campi poteva continuare regolarmente, il 19 marzo nessuno osava toccare un attrezzo. Tutto iniziava nelle prime ore del mattino, durante le quali la gente riempiva la piccola chiesetta del paese per partecipare alla Messa. L’osservanza del precetto, anche se per molti era pura consuetudine, veniva regolarmente rispettata. Le sdore, quelle belle donne robuste, rosse in volto, che sprizzavano salute da tutti i pori, preparavano il desinare delle grandi occasioni. Era abitudine molto vecchia invitare gli amici con cui si intratteneva un rapporto di fiducia. Dopo mangiato, tutti in piazza. I primi a lasciare la tavola erano i bambini che, con qualche soldino dato loro dai genitori, si avviavano ad acquistare i dolciumi esposti nelle bancarelle. Uscivano, poi, i giovanotti che, appena in piazza, si sarebbero diretti verso la giostra -il calcinculo-, poi i fidanzati. Per ultimi i genitori, i quali, ultimate le faccende domestiche, raggiungevano la piazza a  braccetto. Entrambi avevano un còmpito: guardare attentamente la figlia fidanzata perché non si allontanasse più di tanto, e inoltre i ragazzi perché non venissero “a botte” con altri dei paesi limitrofi. Per il giorno di S. Giuseppe pareva esistesse una consuetudinaria regola atmosferica: per tre giorni continuativi soffiava la bora (è un fenomeno che si verifica tutt’ora) tanto è vero che un detto popolare dice l’ha le buere ad S. Giusaf (è la bora di S. Giuseppe). Era raro che quel fastidioso vento non infastidisse lo svolgersi della festa. Oggi la festa patronale è cambiata: si allestiscono mostre, spettacoli d’intrattenimento (esibizioni canore, sfilate di moda), assaggi di vini prettamente locali, giostre di vario genere, bancarelle con ogni sorta di ben di Dio ecc. Ma nei Fontanari anziani rimane nel cuore il ballo sull’aia, l’aroma del fumo dei sigari e delle pipe degli avventori seduti ai tavoli delle osterie, la gioviale attesa dei bambini e dei ragazzi per l’arrivo della giostra, i teneri approcci e gli incontri tra i giovani fidanzatini, l’entusiasmo irripetibile per quei giorni quando, in ogni angolo della campagna, vi era sapore ed aria di festa. (Tratto dalla rivista New Corriere dei Lidi)

lunedì 15 dicembre 2014

Tre film ferraresi d'inizio secolo secolo

All’inizio del secolo furono girati a Ferrara tre film che ebbero un importante successo di pubblico. Film interamente ferrarese è Parisina (Un amore alla corte di Ferrara nel XV secolo), girato nel 1909 da Giuseppe De Liguoro su soggetto del ferrarese Domenico Tumiati, che l’aveva scritto per il teatro ed era stato rappresentato nel cortile del Castello di Ferrara nel 1903 alla presenza di D’Annunzio. È la storia di Parisina Malatesta che a soli 14 anni sposa il trentacinquenne Niccolò III d’Este venendo ad abitare in una Ferrara funestata dalla peste. In occasione di un viaggio per far visita ai suoi familiari, fu accompagnata, per volere del marito, da Ugo d’Este, e fra i due nacque una relazione che proseguì di nascosto anche al ritorno a Ferrara, dove, messo in guardia da una serva, il marito scoprì la cosa e fece dapprima rinchiudere poi decapitare i due giovani amanti. Nel 1912 esce Sotto a chi tocca, di Antonio Sturla, incentrato sulle comiche di due macchiette ferraresi: Tugnin d’là cà d’Idio e il cavalier Burella. Ebbe un tale successo popolare che venne proiettato per quindici giorni di séguito, con tale ressa di pubblico che dovettero intervenire i vigili urbani. Due anni dopo, nel 1914, ecco Torquato Tasso di Roberto Danesi, che racconta la vita dell’autore della Gerusalemme liberata. Sorrentino di nascita, raggiungerà la fama proprio a Ferrara, dove tuttavia verrà anche rinchiuso (giudicato pazzo per avere dato in escandescenze durante le sue terze nozze con Margherita Gonzaga) presso l’Ospedale Sant’Anna. La pellicola fu realizzata tra Ferrara, Sorrento e Roma, prestando grande attenzione a ricostruire fedelmente i luoghi, e fu premiata da pubblico e critica. (Tratto dalla Rivista New Corriere dei Lidi)

venerdì 12 dicembre 2014

LA MITICA LEGGENDA DI RAMA

Alcun li vogliono provenienti dall'India, altri ne ipotizzano l'origine atlantidea: sia come sia, è un fatto che ancora oggi si parli, anche sui quotidiani, della mitica città di Rama, che sarebbe sorta nella val di Susa (zona negli ultimi tempi agli onori -meglio, agli oneri- delle cronache per motivi assai meno affascinanti). La città sarebbe stata edificata alle pendici dell'aspro Rocciamelone (da Roc-Maol, per chi propende per un’origine celtica), con enormi massi di pietra perfettamente squadrati e collocati uno sull'altro con una tecnica d’alta ingegneria analoga a quella usata in Egitto, in Asia, in Sudamerica. Si favoleggia che possedesse lunghissimi portici che si estendevano dall'attuale paese di Bussoleno fino a Bruzolo e terminavano sulla riva destra della Dora Riparia, e che avesse una notevole vita commerciale e culturale, con tanto di università e biblioteche. Già nel secolo scorso, parecchi ricercatori si occuparono dell'enigmatica questione con l'intento di reperire testimonianze e fatti concretamente dimostrabili che ne avvalorassero l'esistenza, ma è  certo che, come spesso avviene, si è finiti sovente per mandare la fantasia aldilà degli effettivi ritrovamenti e delle prove documentarie. Si è detto che alcuni studiosi nel secolo passato abbiano avuto la fortuna di vedere uno degli antichissimi testi e di averne copiato poche parti, ovviamente indecifrabili. Tuttavia, il testo è irrintracciabile. Si è detto che la vetta del Rocciamelone fosse riservata a sacerdoti e sapienti, che presso l'attuale Bosco Nero esistesse un giardino simile a un paradiso terrestre, che gli abitanti della città fossero scuri di pelle, con lo sguardo fiero e una bellezza non comune, immunizzati dalle malattie ed esperti nel sapere, nella magia e nell’alchimia, e quant’altro. Alcuni ipotizzano che, in fuga dalla catastrofe di Atlantide, si siano fermati in val di Susa, avendo trovato in loco un raro materiale che essi impiegavano per i loro scopi segreti e che dunque scavarono vere e proprie miniere: ancora oggi i vecchi valligiani ci tramandano una serie di fatti leggendari tra cui si narra che i loro enigmatici strumenti di lavoro (che sfruttavano la luce, forse una sorta di laser), siano rimasti sepolti in quelle fantomatiche cave estrattive e si dice che i Romani effettuarono delle ricerche nel Bosco Nero per cercare tali strumenti. Purtroppo, però, a suffragare questa o quella ipotesi, dal punto di vista squisitamente materiale, c’è poco. Cosa che peraltro non pare scoraggiare i più entusiasti. La fantastica Rama, dicono del resto alcuni studiosi dell'Ottocento, scomparve all'improvviso, distrutta da un diluvio che provocò enormi frane sulla montagna precipitando masse spaventose di terra e roccia che seppellirono tutto. Altri parlano di un terremoto, con i medesimi effetti. Alcuni citano a sostegno dell’esistenza di Rama le credenze raccolte fra i valligiani che vorrebbero il ritorno di un personaggio dai poteri sovrumani, cosa riportata anche nelle Memorie mirabili dell'Abate Francis del 1789, dove, dopo aver ricordato la leggenda di Fetonte, si tratterebbe della venuta di genti dall’Atlantide, della fondazione e successiva distruzione della loro città. C’è anche chi sostiene che in val di Susa ci siano alcune persone deputate a tramandarsi, di generazione in generazione, il segreto di Rama. Ma cosa abbiamo, concretamente, in mano, per dare effettivamente corpo alle leggende? È assodato che la zona è estremamente ricca di cocci, ceramiche, frammenti di mattoni e di marmo, persino colonne, e materiale -c’è chi dice- a tonnellate, ad esempio fra Caprie e Novaretto. Ma a quanto pare, di epoca romana. Ci sono i nomi delle borgate locali, che sembrano ricordare antiche attività: Fournel (fonderie: vi si sono rinvenuti stampi in pietra ed un'ascia); Muni (fornace per vasi e mattoni: in zona sono stati rinvenuti moltissimi cocci); Lajet (laghetto dal cui bacino un acquedotto, di cui si sono trovati alcuni resti); Ulié (in tempi antichi vi esisteva un frantoio per la produzione dell'olio di noci e nocciole); monte Caprasio (dagli allevamenti). I monti circostanti offrivano ricche miniere: rame in località Sciò; pirite alle Roche neire, addirittura oro (Coumba d'or). Alcuni ipotizzano un’origine celtica: la presenza celtica in zona è accertata, e nelle descrizioni ottocentesche c’è ancora il ricordo del grande tempio di Malano. Poi vennero i Romani, che potrebbero avere ampliato ed abbellito la città con fontane, acquedotti e colonnati di marmo bianco e grandi strade selciate. In quanto al nome, difficile stabilire da dove sia nato. Alle pendici del magico Musiné c'è un bosco Rama accanto a una cava di opale, una vecchia trattoria intitolata da sempre Alla città di Rama e un pianoro su una collina soprannominato truch 'dla Rama. Ma cosa resta oggi di Rama? Innanzitutto il ricordo, tramandato di generazione in generazione, d’una città bellissima, più importante di Torino. Ma dov'è finita? Perché non ne restano che cocci e mattoni frantumati? Lungo la strada che porta a Novaretto, in alcuni punti, affiorano da ambo i lati i resti di muraglie che la costruzione della strada ha interrotto e tagliato a metà. Questi ruderi sono visibili a più riprese, per un lungo tratto. Sappiamo con certezza che la storia di Rama è sotto le zolle. Tutto ciò che della città è noto, è soltanto la storia della sua distruzione: prima ad opera dei barbari, e poi definitivamente spianata dai Franchi. Al passaggio di Carlo Magno, Rama non esisteva già più. Scritti di fine Ottocento di studiosi delle tradizioni piemontesi citano la testimonianza di pellegrini che giungevano da varie parti della terra per rendere omaggio ad un culto misterioso che esisteva nel cuore della val di Susa: parlano di eroi nordici, di Egizi, Druidi e di sapienti venuti dall'India, di una città ciclopica simile a Machu Pichu e Tihauanaco, con mura alte decine di metri, di abitanti che possedevano conoscenze misteriose e che scavavano incessantemente nelle viscere del Musiné per qualche motivo che conoscevano solo loro. Si racconta pure che possedessero farmaci in grado di vincere qualsiasi malattia e che fossero in grado di difendersi con la forza del fulmine. Quando la terra di origine di questo misterioso popolo, Atlantide, scomparve, Rama fu abbandonata. Palazzi e mura furono progressivamente abbattute dalle culture pagane e poi cristiane che si affacciavano sulla valle, trasformate in un’inaspettata e gigantesca cava di pietra pregiata. Rimase più o meno intatto sino al primo medioevo un modesto segmento delle mura di Rama, usato dai signori della guerra del tempo per controllare il transito nella valle. Poi anche quest’ultima vestigia fu inghiottita. Oggi rimane qualche tempio di tipo megalitico; molte "ruote solari" simili alle “ruote della medicina” degli indiani d’America; strani sarcofagi di pietra con dentro scheletri di tre metri e complessi di pietra dal significato non ancora chiarito. E proprio in zona si trova il Musiné, la montagna che sembra segnare il punto di impatto della caduta del bolide celeste ricordata dal mito di Fetonte. Oggi montagna brulla, dal colore rossiccio, sormontata da una grande croce, è il punto focale di vecchie e nuove credenze: molti affermano che al suo interno esistano delle caverne naturali dove cavalieri medievali nascondevano tesori. Altri affermano che dentro la montagna si celerebbero grotte alchemiche popolate da maghi dai poteri straordinari, rifugi in cui sopravvivrebbero ancora oggi i discendenti di Atlantide, e basi di astronavi extraterrestri (numerosi gli avvistamenti di ufo sopra la montagna). E molte scuole esoteriche considerano ancora oggi la zona della Val di Susa e del Musiné un vero e proprio luogo sacro alla stregua della Big Seated Mountain americana, dell’Ayers Rock australiana ecc. Il Musiné (cui viene dato anche l'attributo di hamtà, porta dimensionale, attraverso la quale gli uomini possono comunicare con la dimensione invisibile e con altri mondi abitati) è considerato un “ombelico del mondo”, un punto di unione tra cielo e terra da cui sarebbe uscito anticamente lo spirito dell'uomo. (Tratto dalla rivista New Corriere dei Lidi)

mercoledì 3 dicembre 2014

SI DICE... NON SI DICE Errori e orrori nell'uso che facciamo della nostra lingua (a cura della risorta Accademia dei Fluttuanti)

Ricordo ancora bene il primo giorno della scuola elementare. Come tutti gli altri bambini, anch’io ero stato opportunamente preparato al fatto che nella mia classe ci sarebbe stato un bambino ‘deficiente’, col supremo scopo di evitare di farlo sentire osservato o preso in giro e dunque di avere per lui un occhio di riguardo. Va da sé che il termine ‘deficiente’ era usato con tutto il rispetto del caso, senza la minima accezione negativa, anzi (il termine vale ‘deficitario, mancante in qualcosa’). Più tardi s’imposero termini barbarici (che intervengono sempre quando si vogliono confondere le acque o definire delle ‘figure professionali’ che non si capisce bene cosa facciano) quali ‘down’ e ‘handicappato’. ‘Down’ durò poco (ma, dato che non si butta via nulla, passò a significare un’altra cosa) mentre ‘handicappato’ evolvette in ‘portatore di handicap’. Ma poiché per certe cose l’evoluzione è inarrestabile, si arrivò presto a ‘disabile’, fino all’attuale ‘diversamente abile’, e in futuro chissà. La differenza è che una volta si diceva ‘deficiente’ con rispetto, ora è spesso un ‘diversamente abile’ ipocrita. Perché prima il valore era l’essenza della cosa, ora è la forma, l’apparenza. Ho un amico ‘diversamente abile’ che quando lo chiamano così si arrabbia come un caimano. Ha un nome: Piero, ed è così che lo chiamo. (Tratto dalla rivista New Corriere dei Lidi)

martedì 2 dicembre 2014

STORIA E CURIOSITA' LOCALI... IN PILLOLE

QUATTRO CARDINALI... QUATTRO ‘CARDINI’ PER LA STORIA DI COMACCHIO

Pochi sanno che la strada panoramica dei Sette lidi, o strada Acciaioli, si snoda sopra l’argine costruito per far fronte ai frequenti episodi alluvionali del territorio. Se la costruzione dell’argine e della strada sono relativamente recenti, il progetto è antico. Non è un caso se l’intitolazione della strada è a Niccolò Acciaiuoli (o Acciaioli), cardinale, inquisitore, legato pontificio di Ferrara e Comacchio in più riprese, e per diversi anni, fra Sei e Settecento. Fra le altre cose, fu lui a fare ricostruire il Loggiato dei Cappuccini, nel 1686, dopo il crollo avvenuto 16 anni prima per una scossa di terremoto. Di nobile famiglia fiorentina, zio di un altro cardinale, Filippo, divenne dottore in legge a Roma e Uditore presso la Camera Apostolica. Nel 1669 fu nominato cardinale da Papa Clemente IX e in poco tempo divenne vescovo di Frascati, poi di Ostia e di Velletri (dove assunse anche la carica di governatore). Nel 1717 divenne Segretario della Congregazione della Sacra Romana e Universale Inquisizione, carica che mantenne fino alla morte, che avvenne a Roma nel 1719. La sua salma è inumata nella chiesa di San Lorenzo, presso la Certosa di Firenze, fatta erigere da un membro della sua famiglia e suo omonimo, Niccolò Acciaiuoli, nel XIV secolo.

La toponomastica comacchiese ricorda, giustamente, il cardinale Giuseppe Renato Imperiali, papa mancato, che fu una delle figure più interessanti della vita politica e diplomatica dello Stato Pontificio fra il XVII e il XVIII secolo. Genovese, quinto di dodici figli di Michele Imperiali, principe di Francavilla, e di Brigida Grimaldi, nacque secondo alcuni a Francavilla Fontana, secondo altri ad Oria d’Otranto, nel 1651 (curioso che anche sul luogo della sua morte c’è chi dice Genova e chi Roma, comunque nel 1737). Fra i suoi tanti incarichi (ricordiamo in particolare quello di Prefetti della Congregazione del Buon Governo, che sovraintendeva all'amministrazione dei comuni dello Stato della Chiesa, incarico che mantenne fino alla morte, avviando un'intensa attività di risanamento finanziario e riforma amministrativa che trovò espressione anche nella pubblicazione di una raccolta della normativa sull'amministrazione dello Stato), come già suo zio Lorenzo, ebbe la Legazione pontificia di Ferrara e Comacchio, dove rimase per circa sei anni. Si occupò con cuore di Comacchio, di cui curò importanti ristrutturazioni urbane: fu lui a rifare il famoso Trepponti, che, dopo pochi anni dalla sua costruzione, giaceva in pessime condizioni, dotandolo delle due torri e delle colonne che vediamo ancora oggi.  Nel 1711 il Papa lo incaricò di incontrare l’imperatore Carlo VI per pretendere la restituzione di Comacchio (occupata manu militari dagli Estensi) allo Stato Pontificio. Non avendo avuto successo direttamente, pare per gelosie straniere nei suoi confronti (le stesse che gli negheranno per due volte il soglio pontificio), brigò per ottenere il risultato che si era proposto per “vie traverse”. Dopo le vicende comacchiesi, tornò a Roma, assumendo diversi incarichi, godendo della stima (e delle invidie) di molti, fra le quali quella del re di Spagna, che gli impedirono per ben due volte di diventare papa. Valendosi dei maggiori ingegneri e architetti del tempo, fece eseguire notevolissime opere in varie città: fra le maggiori, la sistemazione del porto di Civitavecchia, il restauro di Castel Sant’Angelo a Roma, il magazzino e la torre della saline di Cervia, il riassetto urbano e numerosi interventi edilizi a Ferrara, Fano, i duomi di Vetralla e Monticelli, diversi acquedotti e fontane. Uomo di vasti interessi, protesse artisti e pittori, e lasciò una biblioteca di oltre 15.000 volumi, ricca di testi rari, che aprì al pubblico e agli studiosi (e che fu lasciata andare dispersa, all’asta, a circa sessant’anni dalla sua morte). oltre a un’importante pinacoteca.

Giacomo Serra (1570-1623), genovese di famiglia senatoria, sebbene di poche lettere, grazie al suo ingegno ed al suo spirito di iniziativa, passò, a Roma, dalla carica di Cameriere Pontificio a quella di Tesoriere Generale, per essere poi creato cardinale il 12 settembre 1611. Fu deputato legato pontificio di Ferrara e Comacchio dalla fine del 1615 al 1623 e si occupò con dedizione alla rinascita di  Comacchio, sia sul piano spirituale che, soprattutto, su quello materiale. Fu lui, ad esempio, a far progettare la Loggia dei Mercanti del Grano, di minori dimensioni ma sul modello di quella genovese, e fu lui che introdusse la coltivazione della zucca nel Bosco Eliceo, in un’epoca segnata da grande carestia. Nel 1621 a Ferrara pubblicò un importante editto per la Processione dell’Incoronazione della B.V. Maria del Carmine. Quando nel 1623 partì per Roma, per il conclave, fu sostituito temporaneamente dal monsignor Giovanni Battista Pallotta (che successivamente fece costruire il canale che ancora oggi porta il suo nome). Serra però non tornò mai da Roma, perché vi morì, in quello stesso anno, a soli 53 anni.

Nipote di Giacomo Serra, Niccolò, nato a Genova nel 1706, da Francesco Maria e da Laura Negrone, avviato verso la carriera ecclesiastica a Roma, dove si laureò nel 1730. Ottenne diverse importanti cariche, da vice-legato a Urbino a governatore di Camerino, Ancona, Viterbo, Perugia,  Castelnuovo e Montone. Tornato a Roma, fu presidente della Zecca, delle Carceri, delle Strade. Nel dicembre 1753 fu ordinato sacerdote e nel gennaio 1754 venne eletto Arcivescovo di Mitilene, quindi fu nominato nunzio apostolico in Polonia. Ritornato a Roma nel 1760 fu nominato Uditore Generale della Camera Apostolica e finalmente Cardinale nel 1766, meritando anche il titolo di Santa Croce in Gerusalemme. Contemporaneamente fu nominato, per un triennio, legato pontificio a Ferrara e Comacchio. Ma proprio a Ferrara morì, l'anno successivo, per infarto. I suoi resti riposano nella cappella della Cattedrale di San Giorgio. (Tratto dalla rivista New Corriere dei Lidi)